Il termine demansionamento indica la decisione datoriale di assegnare a un lavoratore compiti qualitativamente o quantitativamente inferiori rispetto a quelli pattuiti al momento dell’assunzione, o comunque estranei al profilo professionale per il quale egli è stato formato e inquadrato. Si tratta di una pratica che interseca piani giuridici, organizzativi e psicologici: non attiene solo all’organizzazione interna dell’impresa, ma incide sul valore economico della prestazione, sull’identità professionale della persona e, in ultima analisi, sul clima aziendale. A livello normativo, nell’ordinamento italiano il riferimento cardine resta l’articolo 2103 del Codice civile, novellato dal Jobs Act, che consente talune modifiche di mansioni qualora collegate a esigenze tecnico‑produttive e organizzative purché vengano rispettati determinati limiti formali e sostanziali. Nel pubblico impiego privatizzato, la disciplina di cui all’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 165 del 2001 impone l’adibizione del dipendente alle mansioni di assunzione o a mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento; solo il prevalente e costante svolgimento di compiti propri di un livello inferiore concretizza dequalificazione, con possibili conseguenze risarcitorie sia sul piano patrimoniale sia su quello non patrimoniale. Comprendere le radici, gli effetti e le modalità di gestione del demansionamento è dunque essenziale tanto per i datori di lavoro, che devono contemperare flessibilità organizzativa e tutela della dignità professionale, quanto per i lavoratori, chiamati a far valere eventuali diritti lesi. In questa guida, articolata in tre sezioni, verranno approfondite le cause che possono spingere un’azienda a demansionare, le ricadute che ne derivano e le strategie più efficaci per governare il fenomeno, facendo riferimento al volume «Il lavoro subordinato – Rapporto contrattuale e tutela dei diritti», consigliato per chi desideri un ulteriore livello di dettaglio dottrinale e giurisprudenziale.
Indice
Cause del demansionamento
Le ragioni che inducono un’impresa a ridisegnare verso il basso le mansioni di un proprio dipendente sono molteplici e spesso si intrecciano tra loro. Le congiunture economiche negative, ad esempio, possono imporre rapide contrazioni dei costi operativi: in tale scenario, l’organizzazione potrebbe scegliere di mantenere in organico il personale ma di riallocarlo in posizioni meno onerose o con minore responsabilità, riducendo così il carico salariale indiretto collegato a premi di risultato o indennità di funzione. Un’altra matrice frequente del demansionamento riguarda la performance individuale: quando i risultati conseguiti non soddisfano le aspettative concordate, la dirigenza può ritenere che l’assegnazione a compiti più semplici, oltre a contenere i rischi di errori, costituisca un’occasione per favorire un percorso di revisione delle competenze. Vi sono poi i vasti processi di riorganizzazione aziendale, inclusi fusioni, acquisizioni o introduzioni di nuove tecnologie, che possono rendere obsoleti taluni profili professionali. Se, a fronte di un cambio di modello di business, i ruoli originari perdono centralità o vengono automatizzati, il management può optare per il demansionamento di chi non possiede ancora le skill richieste dai nuovi assetti. Talvolta la stessa decisione assume carattere temporaneo: si pensi ai casi in cui, durante un progetto speciale o un picco improvviso di attività in un reparto diverso da quello di appartenenza, un lavoratore sia spostato su mansioni meno qualificate per garantire la continuità del servizio. Non va infine trascurato il fattore culturale: in contesti organizzativi dove l’avanzamento di carriera non segue percorsi lineari e meritocratici, può accadere che il demansionamento venga utilizzato, legittimamente o meno, come strumento di pressione nei confronti di chi non si allinei alle aspettative manageriali o sindacali. In ognuno di questi scenari, la cornice legale impone che la variazione di mansioni si fondi su criteri oggettivi, sia proporzionata alle esigenze dichiarate e avvenga, nel settore privato, dopo un confronto con il lavoratore o con le rappresentanze sindacali, affinché il mutamento non degeneri in abuso di potere disciplinare.
Implicazioni del demansionamento
Le conseguenze generate dal demansionamento trascendono la mera modifica dell’organigramma e investono un ampio ventaglio di variabili. Sul piano della soddisfazione lavorativa, numerosi studi di psicologia organizzativa evidenziano come la percezione di subire una retrocessione ruoli produca un forte senso di ingiustizia distributiva e procedurale, generando calo di motivazione, disimpegno emotivo e, nei casi più gravi, fenomeni di job withdrawal come assenteismo, turnover o, nel pubblico, richieste di mobilità. Tali reazioni, se non intercettate, riflettono inevitabilmente sulla performance individuale: un collaboratore che si sente sottovalutato tenderà a interiorizzare l’idea che gli obiettivi assegnati non abbiano reale valore o non ne abbiano per lui, riducendo lo sforzo discrezionale e la creatività. L’organizzazione, di conseguenza, corre il rischio di disperdere capitale umano prezioso: competenze tecniche, soft skill e memoria storica che avevano motivato in origine l’assunzione rischiano di andare in parte perduti o di essere messi a frutto altrove, qualora il dipendente scelga di dimettersi. Sul versante giuridico, il demansionamento illegittimo, ossia privo dei presupposti normativi e contrattuali, può comportare la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno da dequalificazione, integrabile sia nel lucro cessante – per esempio la perdita di chance di avanzamento di carriera o di percepire trattamenti economici più elevati – sia nel danno non patrimoniale, collegato al pregiudizio all’immagine professionale e all’integrità psico‑fisica del lavoratore. La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che perché si configuri un demansionamento sussistano due condizioni: la sottrazione prevalente e non meramente occasionale delle mansioni proprie della qualifica e la lesione apprezzabile del patrimonio professionale, inteso come insieme dinamico di competenze. A livello collettivo, queste dinamiche si riverberano sul clima interno, alimentando sfiducia nei confronti del management e sentimenti di insicurezza tra i colleghi, con possibili ricadute sulla produttività aggregata e sull’attrattività del brand employer. Data la complessità delle implicazioni, l’impresa che ricorra a tale istituto deve valutare con cura costi e benefici, anche reputazionali.
Gestione del demansionamento
Affrontare con successo un processo di demansionamento richiede un approccio olistico, capace di bilanciare le esigenze aziendali con la protezione della dignità del lavoratore. Il primo tassello è la comunicazione trasparente. Nella prassi virtuosa, il responsabile delle risorse umane o il diretto superiore convocano il dipendente in un colloquio strutturato, illustrando le ragioni organizzative del cambiamento, la durata prevista, gli obiettivi di performance connessi e le prospettive di sviluppo. La chiarezza sull’orizzonte temporale e sui criteri di eventuale riallineamento alla posizione originaria riduce l’effetto sorpresa, consentendo al lavoratore di elaborare le proprie aspettative. In parallelo, risulta determinante la predisposizione di piani di formazione e upskilling. Quando il demansionamento nasce da un gap di competenze, l’azienda può offrire corsi tecnici, mentoring o partecipazione a progetti cross‑funzionali che accelerino l’acquisizione di nuove skill. È la logica della riqualificazione continua, che consente di trasformare una misura percepita come penalizzante in un’opportunità di crescita. Per quanto concerne l’ascolto organizzativo, strumenti come survey di clima, focus group e sportelli di counselling permettono di intercettare precocemente malesseri e di co‑disegnare soluzioni personalizzate, ad esempio job rotation orizzontali che salvaguardino l’identità professionale pur rispondendo alle contingenze produttive. Un ulteriore pilastro è la governance contrattuale. La stipula di accordi individuali, nei casi previsti dall’articolo 2103 come riformato, o la negoziazione di intese collettive con le rappresentanze sindacali possono definire cornici di garanzia sul trattamento economico e sugli step di verifica dell’assetto mansioni. In contesti di maggiore complessità, le imprese possono valutare il ricorso a misure di flexicurity quali l’affiancamento, il part‑time agevolato o, nei casi estremi, l’outplacement assistito, accompagnando il lavoratore verso nuove opportunità interne o esterne. Degna di menzione è, infine, la prospettiva psicosociale: programmi di welfare aziendale che includano supporto psicologico, iniziative di wellbeing e flessibilità nella gestione degli orari costituiscono leve preziose per mitigare lo stress da ridimensionamento professionale e mantenere alto il senso di appartenenza.
Conclusioni
Il demansionamento rappresenta uno snodo delicato nella gestione delle risorse umane, poiché coniuga interessi potenzialmente confliggenti: la necessità dell’impresa di adattarsi a scenari economici mutevoli e l’esigenza del lavoratore di veder riconosciuto e valorizzato il proprio patrimonio professionale. Una applicazione consapevole di questo istituto richiede rigore giuridico, ma soprattutto sensibilità organizzativa. Le cause alla base della retrocessione di mansioni devono essere analizzate alla luce di dati oggettivi e comunicate con lealtà; le implicazioni, che si estendono dal piano motivazionale a quello reputazionale, impongono la predisposizione di leve di gestione proactive; le modalità di governo del processo, infine, devono integrare formazione mirata e strumenti di people care, consolidando la fiducia reciproca. Solo un approccio integrato, sorretto da una cultura aziendale attenta alla dignità della persona, consente di trasformare il demansionamento da potenziale fattore di contenzioso e conflitto in occasione di rinnovamento organizzativo e di sviluppo delle competenze.