Il trasferimento del lavoratore da una sede all’altra dell’impresa rappresenta uno degli strumenti più incisivi dello jus variandi datoriale. In Italia la facoltà di disporlo trova il suo argine nell’articolo 2103 del Codice civile, che lo subordina alla presenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive». In assenza di tali presupposti il provvedimento è illegittimo, con la conseguenza che il lavoratore può ottenerne l’annullamento e chiedere il risarcimento dei danni subiti. Questa guida esamina in modo sistematico i presupposti di validità del trasferimento, i criteri per verificarne la legittimità, le procedure di impugnazione e le tutele riconosciute al dipendente, alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Indice
Fondamento normativo e definizione
Il legislatore, pur riconoscendo al datore di lavoro la necessità di riorganizzare l’impresa, ha posto limiti stringenti alla mobilità unilaterale del personale. L’articolo 2103 c.c., nel testo novellato dal Jobs Act, stabilisce che il lavoratore possa essere trasferito solo se le ragioni addotte siano reali, oggettive e dimostrabili in giudizio. La nozione di “trasferimento” comprende lo spostamento definitivo del dipendente a un’unità produttiva ubicata in un Comune diverso, ma la giurisprudenza estende la tutela anche ai cambi di sede all’interno dello stesso Comune quando incidano in modo significativo sull’organizzazione di vita del lavoratore. Il carattere «comprovato» delle ragioni implica un onere probatorio a carico dell’azienda: in caso di contestazione, essa deve dimostrare che il dipendente non era più utilmente impiegabile nella sede di provenienza, che la sua professionalità era effettivamente necessaria in quella di destinazione e che, fra più lavoratori con mansioni analoghe, proprio quel dipendente doveva essere scelto.
Presupposti di legittimità del trasferimento
Perché il trasferimento sia legittimo occorre in primo luogo che esistano reali esigenze tecniche, organizzative o produttive. Ciò significa che lo spostamento deve contribuire a risolvere un problema di funzionamento dell’impresa, a migliorare l’efficienza o a far fronte a incrementi di produzione non gestibili con le risorse umane già presenti nella sede di destinazione. Tali esigenze devono esistere al momento della decisione e non possono essere addotte post factum. In secondo luogo, il datore di lavoro deve selezionare il lavoratore in modo coerente con i criteri di professionalità richiesta; la scelta non può essere arbitraria o discriminatoria né può costituire ritorsione per precedenti rivendicazioni sindacali. Terzo elemento essenziale è la comunicazione scritta: il provvedimento deve essere formalizzato prima dell’esecuzione e, se il lavoratore lo richiede, devono essere indicate puntualmente le ragioni poste a fondamento dello spostamento. La Cassazione ha chiarito che l’azienda non è tenuta a motivare contestualmente, ma è obbligata a farlo se il dipendente lo domanda entro i termini di legge; in difetto, il trasferimento è esposto a declaratoria di illegittimità.
Criteri di illegittimità e onere probatorio
Il trasferimento diventa illegittimo quando il datore non sia in grado di dimostrare l’inutilità del lavoratore nella sede originaria o la necessità effettiva della sua presenza altrove, o ancora quando non spieghi perché sia stato scelto quel dipendente in luogo di altri colleghi con pari mansioni. L’illegittimità si configura anche quando le ragioni addotte risultino generiche, apparenti o contraddette dai fatti aziendali, ad esempio se la stessa mansione viene poi affidata a un nuovo assunto nella sede di provenienza. Sul piano processuale l’onere della prova grava sull’impresa: spetta al datore produrre documenti, organigrammi, dati di produzione o qualsiasi elemento dimostrativo; il lavoratore, dal canto suo, può limitarsi a contestare la sussistenza delle ragioni oppure a evidenziare circostanze che rendano implausibile la versione datoriale. In caso di condanna, il giudice ordina il ripristino del rapporto nella sede originaria e nelle stesse mansioni, con priorità su altri dipendenti eventualmente collocati nello stesso posto, secondo il principio affermato da Cassazione 11564/2023.
Procedura di impugnazione
Il dipendente che ritenga illegittimo il trasferimento deve seguire la procedura stabilita dalla legge 182 del 2010. Entro sessanta giorni dalla ricezione della lettera di trasferimento deve inviare al datore, tramite PEC o raccomandata con avviso di ricevimento, un atto di impugnazione stragiudiziale in cui contesti la legittimità del provvedimento e richieda, se non già fornite, le motivazioni specifiche. Con tale atto si interrompe il termine decadenziale. Nei centottanta giorni successivi l’impugnante deve depositare ricorso dinanzi al Tribunale del lavoro territorialmente competente. L’omesso rispetto dei termini comporta la decadenza dal diritto di impugnare. La fase giudiziale mira ad accertare l’illegittimità del trasferimento, a ordinarne l’annullamento e a condannare l’azienda al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore.
Tutele risarcitorie
L’annullamento del trasferimento comporta il diritto del dipendente al ristoro dei pregiudizi sofferti. Il danno si articola in due voci. Il danno patrimoniale include le spese di viaggio e di alloggio, l’incremento dei costi di vita nella nuova sede, gli eventuali canoni di locazione, i maggiori oneri di assistenza familiare. Queste poste devono essere provate documentalmente o quantificate in via equitativa quando non sia possibile una precisione contabile. Il danno non patrimoniale comprende sia il danno biologico, in presenza di certificata lesione dell’integrità psicofisica, sia il danno esistenziale, legato allo sconvolgimento della vita relazionale e familiare. La Cassazione, con la sentenza 703 del 2021, ha riconosciuto la risarcibilità del danno esistenziale in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, valorizzando, tra gli indici, il tempo impiegato ogni giorno dal lavoratore per il tragitto casa‑lavoro‑casa e le ripercussioni sull’assistenza a un congiunto malato. Il quantum è liquidato dal giudice in via equitativa, tenendo conto dell’intensità e della durata del pregiudizio.
Orientamenti giurisprudenziali
Il principio cardine elaborato dalla Corte di Cassazione stabilisce che il trasferimento è legittimo solo se sorretto da ragioni tecniche, organizzative o produttive effettive e specifiche, con onere della prova a carico dell’impresa. La sentenza 29596 del 2020 ha ribadito tale assunto, affermando che il giudizio di congruità delle ragioni è sindacabile dal giudice. La pronuncia 24260 del 2013 ha precisato che la mancata indicazione delle motivazioni, quando il lavoratore le abbia richieste, rende illegittimo il licenziamento inflitto per il rifiuto di trasferirsi e, a fortiori, mina la validità del trasferimento stesso. Sul fronte delle conseguenze, la decisione 11564 del 2023 impone il ripristino immediato della situazione antecedente, con riassegnazione prioritaria del posto, mentre la richiamata sentenza 703 del 2021 ha ampliato la tutela risarcitoria valorizzando presunzioni in tema di danno esistenziale. Il quadro giurisprudenziale mostra dunque un orientamento costante a protezione del lavoratore, fermo restando che la legittimità del trasferimento è ammessa quando l’impresa documenti puntualmente le esigenze organizzative e rispetti l’obbligo di motivazione su richiesta.
Conclusione
Il trasferimento illegittimo costituisce una violazione che incide profondamente sui diritti del lavoratore, perché altera il baricentro della sua vita professionale e personale. La disciplina italiana assegna al datore l’onere di dimostrare la necessità reale dello spostamento, salvaguardando nel contempo le esigenze di flessibilità organizzativa dell’impresa. La procedura di impugnazione, scandita da termini decadenziali stringenti, impone al dipendente tempestività e precisione. Le tutele riconosciute, dal ripristino alla sede originaria al risarcimento integrale dei danni, confermano l’importanza attribuita al rispetto delle regole di motivazione e proporzionalità. La giurisprudenza, nell’ultimo decennio, ha consolidato un orientamento rigoroso, orientato a evitare trasferimenti punitivi, discriminatori o meramente opportunistici. In definitiva, la legittimità dello spostamento si fonda su un equilibrio sottile tra interesse organizzativo e tutela della dignità del lavoratore; quando tale equilibrio si rompe, l’ordinamento offre strumenti efficaci per ripristinarlo.